Ci sono cose che non puoi più dire perché – che tu sia favorevole o contrario – vieni accusato all’istante di qualcosa.
Trovo che questo atteggiamento sia dannosissimo, perché la paura di ricevere critiche e insulti blocca il ragionamento, il flusso di idee, e tutti i tentativi di trovare delle soluzioni. Ogni affermazione divide la gente in due fazioni, due partiti, due squadre e – a volte senza sapere neanche bene perché – ogni fazione/partito/squadra si oppone all’altra in modo violento, senza portare ragionamenti, ma soltanto luoghi comuni, slogan e soprattutto insulti.
Credo che sia arrivato il momento di dire le cose chiaramente, e senza paura.
Ho sempre detto quello che pensavo e fatto quello che ritenevo giusto, anche a costo di pagare care le mie scelte.
Ho continuato a farlo anche scrivendo: nel blog, nei libri e adesso nel sito.
In questi giorni, mentre stavo riflettendo sui genitori che picchiano i docenti colpevoli di aver rimproverato i figli, e sul ragazzo che ha dato una coltellata alla sua professoressa perché lo stava rimproverando, ho ricevuto una lettera nella quale una madre mi diceva che il suo bambino di quinta elementare, sempre diligente, era stato rimproverato dalla maestra tanto che si è messo a piangere. La mamma era andata a protestare, spiegando alla maestra che avrebbe dovuto usare un altro tono per non far piangere il bambino, e la maestra aveva risposto che il bambino aveva pianto perché si era sentito in torto. Mi chiedeva quali provvedimenti poteva prendere contro la maestra.
Questa è una delle tante lettere di genitori (sia padri che madri) che mi raccontano di rimproveri subiti dai loro figli, chiedendomi come possono prendere provvedimenti nei confronti degli insegnanti.
Sono genitori che non riescono a dire neppure un “no!” ai figli; genitori iperprotettivi che – oggi sono davvero molti– non riescono a sopportare che “il loro bambino” (di 6 come di 18 anni) venga “rimproverato”. Sono genitori che pensano che il rimprovero sia una mancanza di rispetto, e, di conseguenza, non riescono neanche a concepire che i rimproveri possano essere giustificati, educativi e quindi utili.
In altre parole, gli insegnanti si trovano a gestire classi intere e singoli alunni, senza poterli rimproverare quando non seguono le regole. Guai a farlo! I genitori piombano a scuola inferociti, perché un po’ sono iperprotettivi e un po’ si sentono accusati di non averli saputi educare.
Questo è davvero un grossissimo problema.
La parola “rimprovero” è diventata impronunciabile. Come se fosse politicamente scorretta. Come le parole “disciplina”, “ubbidire”, “No!”, e – peggio ancora- “perché no!” o “perché lo dico io”, per esempio. Un tempo – cioè fino agli anni di chi era bambino negli anni ’60 /’70 – i genitori non spiegavano mai perché i bambini dovevano o non dovevano fare una certa cosa. Questo non era giusto, e nel ’68 i giovani si ribellarono a ogni forma di autoritarismo. Ottimo! Ma piano piano, e per i motivi che ho spiegato in Maleducati o educati male?, siamo passati a dover per forza giustificare ogni più piccolo comando (richiesta, istruzione) che ci permettiamo di rivolgere ai bambini anche piccolissimi.
In pratica, siamo passati da un’educazione di tipo esclusivamente autoritario, a un’educazione di tipo esclusivamente permissivo.
Siamo passati dagli schiaffi agli alunni alle costole rotte agli insegnanti (per carità! Mi affretto a dire che sono contrarissima a ogni più piccola forma di punizione corporale, prima di essere insultata per aver anche solo pronunciato la parola “schiaffi”).
Siamo passati da “la maestra ha sempre ragione” a “la maestra è una cretina”.
Siamo passati da bambini presi a calci dal maestro (oddio, ho detto anche “calci”!), a bambini che danno calci alla maestra.
Siamo passati da bambini fatti piangere, umiliati, messi dietro alla lavagna, in ginocchio, a maestri fatti piangere, umiliati, denunciati da genitori infuriati perché si erano permessi di rimproverare i bambini che magari avevano picchiato i compagni.
In realtà il rimprovero serve. È indispensabile. È il principale mezzo di correzione dei comportamenti sbagliati. E posso aggiungere: sia per i genitori che per gli insegnanti, perché se il rimprovero arriva solo a casa e non a scuola, o viceversa, serve a poco.
Un insegnante di quinta elementare può rimproverare un bambino. E può capitare che il bambino, sentendosi in colpa, pianga.
Soprattutto capita che il bambino pianga quando a casa non viene sgridato o viene sgridato raramente, ma anche quando i genitori sono molto severi e i bambini (ma anche i ragazzi) temono il giudizio e le punizioni dei genitori. A me è capitato, soprattutto in prima media (che è poco distante dalla quinta elementare). Posso dire quindi che, non solo non mi lasciavo impietosire dalle loro lacrime, ma addirittura li rimproveravo anche perché piangevano. Sono crudele? Insensibile? Incompetente? Se un ragazzino si metteva a piangere avrei dovuto sentirmi in colpa? Pensare che avevo esagerato? Chiedere scusa? Voglio precisare che mi dispiaceva tantissimo per quel ragazzino che piangeva, che magari era sempre diligente, ma sapevo che lo stavo facendo perché volevo insegnargli a vivere. Sapevo che lo facevo per il suo bene, insomma. Sapevo anche che ero stata attenta a non umiliarlo, a non offenderlo. Sapevo anche che il disagio che provava era necessario perché percepisse chiaramente che quello che aveva fatto non era un comportamento corretto, e speravo che il ricordo del disagio provato lo avrebbe spinto a riflettere e magari a evitare la stessa situazione. Gli insegnanti fanno tutti questi ragionamenti quando decidono se rimproverare o no un alunno. La grande maggioranza degli insegnanti. Ma se i genitori non se ne rendono conto pensano che si tratti di rimproveri fatti con cattiveria, in modo istintivo, senza applicare nulla di quello che, chi fa questo lavoro, impara sui libri, ma soprattutto con l’osservazione della psicologia del bambino e dell’adolescente.
È ora di domandarsi: ma quali competenze ha un genitore per decidere che l’insegnante debba comportarsi come si comporterebbe lui, senza tenere minimamente conto del fatto che è l’insegnante, l’esperto, e non lui? senza sapere esattamente qual è stato il colloquio fra la maestra e il bambino? Com’è possibile che oggi non venga mai in mente al genitore arrabbiato che possa essere lui quello che sta sbagliando?
Faccio una simulazione del rimprovero (e immaginate pure un tono volutamente duro) come lo avrei fatto io.
“Adesso smettila! Perché hai preso in giro la tua compagna?”
“Per scherzare…”
“Ma ti sembra uno scherzo, dire a una ragazza che parla come una gallina? Uno scherzo è una cosa divertente. La tua compagna ti sembrava divertita, forse? Io credo che tu l’abbia fatta rimanere molto male, invece. Magari quando va a casa si mette a piangere, perché pensa ‘Ho la voce da gallina! E ora come faccio?’. L’hai fatta stare male. Perché?
“Ma io non l’ho fatto apposta!”
“Ne sono sicura. Ma lo hai fatto. Ed è questa, la cosa che conta. Non hai riflettuto, prima di parlare. Ti sei comportato male anche se non volevi! Sei stato insensibile, anche se non volevi. Devi sempre pensare che quello che a te sembra innocuo in realtà può ferire”.
Se il ragazzino a questo punto si mette a piangere, qual è il problema? Non è con il pianto che si rimane traumatizzati. Il pianto serve anche a noi adulti per sfogare il nostro dispiacere, la nostra frustrazione, le nostre paure, il nostro pentimento per un’azione che avremmo voluto non aver compiuto. A maggior ragione serve ai bambini e ai ragazzi, che non hanno ancora imparato a elaborare i disagio senza piangere. Quando imparano? Quando si allenano ad accettare il rimprovero come una cosa fatta con lo scopo di aiutarli? Quando imparano a elaborare il disagio?
Se il ragazzo dell’esempio che ho fatto ha preso in giro la ragazzina è perché non ha capito che non si deve fare. Ma non sempre e non con tutti basta dirlo. A volte i ragazzini trovano gratificante far divertire i compagni, anche facendo soffrire qualcuno. E sono convintissima che 99 volte su 100 chi lo fa non si rende conto che un certo comportamento o certe parole apparentemente innocenti e divertenti possono fare un gran male. Allora bisogna insegnarlo o no? Anzi, i bambini e i ragazzi, non dovrebbero arrivare a scuola conoscendo già queste semplici regole di vita comune?
Preciso: sono favorevole ai rimproveri fatti in classe, davanti a tutti i compagni, perché la classe è una comunità dove ogni cosa che accade, ogni parola, ogni frase, ogni espressione del viso di chiunque può o deve insegnare qualcosa. Si vive insieme per molte ore, si impara insieme, si parla di tutto e a volte si impara a confidarsi, ad aiutarsi e a farsi aiutare. In classe ci si vergogna davanti a tutti, ci si vuole bene davanti a tutti, si fanno delle figuracce davanti a tutti (e può accadere anche all’insegnante, a me è accaduto), si è tristi davanti a tutti, si vive davanti a tutti.
Il rimprovero serve a indicare quali sono i limiti da non oltrepassare. È indispensabile, perché se un bambino non conosce i limiti – suoi e della società -cresce con mille paure o – al contrario- convinto che tutto gli sia dovuto.
Se non si insegna ai figli e agli alunni che oltre quella linea c’è il fuoco, o c’è un burrone, o ci sono le sabbie mobili, o c’è l’illegalità o addirittura la morte, come potranno salvarsi?
La foto che ho utilizzato per la copertina è di Maurizio Giorgi (Ucceli Lipu)