Una delle cose che sogno da tantissimo tempo è obbligare a fare il nostro lavoro (per un anno, ma sono sicura che basterebbe molto meno) tutti quelli che sostengono che le vacanze degli insegnanti sono troppe. Perché ogni persona che parla, che critica, che ironizza sulle vacanze degli insegnanti non sa nulla di ciò che significa insegnare. E spesso non sa nulla neanche di quello che significa studiare. E crede che tutti i ragazzi siano come quei pochi che conoscono o che hanno in mente. O quelli che vedono in televisione. E la prova è che quando commentano le notizie che riguardano gli insegnanti urlano “che vadano a lavorare davvero!”, “mandiamoli a fare i turni”, ecc. Ecco, io vorrei che loro provassero a insegnare.
Innanzitutto diciamo che sono due mesi scarsi e non tre. Dipende dall’ordine di scuola. Di fatto, per alcuni sono quaranta giorni, ma di diritto sono per tutti trentasei giorni. Aggiungiamoci Natale e Pasqua. Diciamo pure che nella Scuola chi lavora poco non sarà tanto stanco. Ma quanti sono quelli che lavorano poco? Pochissimi: in un modo o nell’altro, chi più chi meno, tutti vengono coinvolti emotivamente e fisicamente dal rapporto con alunni, genitori, colleghi, dirigente, bidelli.
L’aspetto più usurante è il fatto che gli insegnanti entrano in contatto con persone, e non con oggetti. Se ne occupano per anni, sono responsabili della loro incolumità fisica e psichica. Sono consapevoli del fatto che possono fare cose magnifiche o – involontariamente – fare dei danni, perché i bambini sono fragili, sono persone che stanno crescendo, che si modificano di giorno in giorno, e ognuno di loro ha delle difficoltà – piccole, grandi, o grandissime. E questa è una responsabilità enorme.
Gli insegnanti entrano in contatto con realtà molto dolorose, a volte, e non possono lasciarsi scivolare via il dolore. Il dolore dei ragazzi – gli insegnanti – se lo portano addosso.
Ci sono ragazzi che vivono per strada, liberi di fare quello che vogliono, che sia lecito o illecito. Ci sono ragazzi impegnati in mille attività, che soffrono perché i genitori non li accettano come sono, ma vogliono plasmarli in modo da trasformarli nei figli che vorrebbero. Sofferenze diverse, ma sempre di sofferenza si tratta.
Ci sono ancora bambini e ragazzini che lavorano con i genitori, specialmente in campagna. E ci sono ragazzi che aiutano le madri badanti e i padri muratori extracomunitari. Quando i nostri figli tornano a casa stanchi, pranzano e poi vanno nella loro camera o in salotto “a rilassarsi”; quei bambini e quei ragazzi lavorano: lavorano i campi, portano a pascolare le caprette, puliscono la stalla, aiutano il padre contadino a raccogliere la frutta, a venderla, a caricarla sul camioncino; aiutano il padre meccanico, o gommista; o fanno le pulizie con la mamma rumena; portano i secchi al padre albanese, o piemontese, o siciliano. Non hanno tempo per giocare con smartphone e videogiochi. Né per divertirsi. Alla sera non guardano la televisione, non stanno sui social, perché, stanchi, si addormentano. Ci sono ragazzi ai quali, se si mettono a svolgere i compiti, il padre dice “Smettila di perdere tempo su quella roba. Vieni a darmi una mano!”. Poi noi li interroghiamo e non hanno studiato. Non è divertente, credetemi.
Agli insegnanti capitano anche ragazzi così, in classe. E cercano di aiutarli, parlando con i genitori e spiegando loro che i ragazzi non devono lavorare e tutto il resto. Sperano di farli riflettere sul fatto che i bambini e i ragazzi hanno bisogno di giocare e, soprattutto, di tempo per studiare. O – al contrario – cercano di spiegare ai genitori che i ragazzi non devono essere impegnati in mille attività. Ma la maggioranza delle volte non riescono a convincerli.
Ci sono bambini e ragazzi che hanno genitori che credono di proteggerli impedendo loro di vivere anche le difficoltà più piccole. E gli insegnanti devono lottare anche per far capire a quei genitori che stanno facendo del male ai loro figli.
Essi vedono molto spesso, nella loro vita di insegnanti, delle situazioni che li coinvolgono anche dal punto di vista emotivo, e portano loro via molte energie. Hanno in classe bambini picchiati dai familiari, o ragazzi malati di tumore, o psicotici, Non è divertente, credetemi.
Il lavoro degli insegnanti è un lavoro che si può fare bene solo volendolo fare con impegno. Se guardano al di là di certi comportamenti, che ad un occhio poco attento sembrano assurdi, vedono ragazzi disperati che vengono a scuola perché in classe trovano qualcuno che si interessa di loro, magari sgridandoli, perché hanno urlato o hanno picchiato un compagno; trovano amici con i quali rompere una solitudine profonda; sono ragazzi che a casa non hanno nessuno, sono abbandonati a loro stessi, senza una parola di conforto. Tutto quello che per tanti figli è normale, per loro è un lusso: un piatto caldo preparato da qualcuno, la presenza di un adulto di famiglia con cui parlare, una maglietta pulita e stirata, qualcuno che tocchi loro la fronte per vedere se hanno la febbre.
Gli insegnanti vedono ragazzi allo sbando che escono per la strada perché lì trovano qualcuno che insegna loro qualcosa. E il problema è che gli insegnamenti della strada quasi mai sono quelli che servono alla convivenza civile. Gli insegnanti devono cercare di lenire le loro sofferenze e il loro disagio, e devono mettercela tutta per mostrare a quei ragazzi un’altra realtà, che prevede il dialogo e non la violenza. Anche se sanno che molto probabilmente non ci riusciranno.
E gli insegnanti che lavorano sodo devono affrontare anche tutta la burocrazia, l’ingiustizia che vedono, i soprusi di certi dirigenti, gli errori dei ministri, le corbellerie dei consulenti dei ministri, la mancanza di risorse, l’amplificazione dei media su tutto quello che di negativo viene vomitato sulla scuola pubblica, la rabbia e la frustrazione per non poter fare nulla per fermare tutto quello che sta accadendo.
Ecco perché, quegli insegnanti, d’estate, non vedono l’ora di stare lontani dalla scuola, dalle classi, dai ragazzi, da certi dirigenti. Devono lasciar decantare la rabbia, dimenticare la frustrazione, tirare a lucido il cervello, riflettere, ritemprarsi, rinnovare le energie, reinventarsi l’entusiasmo indispensabile per poterlo trasmettere ai ragazzi. È meglio lasciare che gli insegnanti si riprendano durante l’estate, perché un insegnante stanco non può trascinare gli alunni nella strada in salita dello studio.
E sarebbe meglio che tutti capissero anche che non si possono obbligare gli insegnanti a stare in cattedra fino ai sessantasette anni. Dopo i sessant’anni gli insegnanti devono riposare, perché hanno già dato moltissimo alla società, ricevendo soprattutto pesci in faccia. E sono anche dell’opinione che bisognerebbe proprio tornare ai tre mesi di vacanza. E non è una provocazione, credetemi.
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